OGGI VI DICO CHE… FLAIANO, CON DEDICA (MIA) A ROSSELLA

“Ormai posso vivere soltanto in posti degradati: Fregene,  Montesacro,  etc. La vista di persone e di luoghi bene mi procura nausea. Segno del fallimento” (Ennio Flaiano,  Diario degli errori, Adelphi 2002).

ATTUALIZZANDO… DAL’ALTA SOCIETA’ DI ROSSELLA A MASSIMO FINI

carlo rossella

Continuo nei miei voli pindarici. Flaiano scrisse nel 1967 questa sua amara battuta. Trenta anni dopo, mal contati, Carlo Rossella trovò inopinatamente spazio su Il Foglio con l’orrenda rubrica “Alta società”. Dedico la battuta di Flaiano, che non ho avuto la fortuna di conoscere, all’amico Carlito. Con una affettuosa precisazione: cinquanta anni dopo, l’umorismo e il sarcasmo, l’infelicità e il non senso della vita del grandissimo Ennio vivono ancora, con noi, e ancora per cento anni vivranno. Altro che fallimento! Qualcosa mi dice invece che le futilità di Rossella 2000 nella sua inutile rubrica sono agli sgoccioli… (tra parentesi: aspetto sempre che Carletto si scusi con Marco Benedetto per il bidone che gli ha dato – invito a pranzo disdettato all’ultimo minuto – e aspetto sempre, infondo è solo un pranzo, che paghi la scommessa da lui perduta, per un pronostico elettorale). In realtà, oggi, mi interessa parlare ancora dello straordinario libro di Massimo Fini, “Una vita”, incentrato sulla ricerca, impossibile, di dare un senso alla nostra esistenza. Pindaricamente, unisco Flaiano con Rossella e Rossella con Fini. Flaiano, come tutti, non ha trovato il senso della vita, però ha lasciato un segno. Carlo Rossella avrebbe grandiose qualità professionali e, voglio strafare, anche umane. Ma del senso della vita non gliene può fregare di meno, la sua vita l’ha sprecata, di quella degli altri gli interessano – nella rubrica – solo i frizzi, i lazzi e le svenevolezze. Massimo Fini non ha trovato il senso della vita, ma almeno ci ha provato, disperatamente, anche attraverso le confessioni di questo suo ultimo libro.

DUE O TRE COSE CHE SO DI FINI E DEL GIORNALISMO

Massimo Fini

Rileggendo ciò che ho scritto ieri, non sono affatto contento… Fini merita un’attenzione più profonda. I problemi di spazio mi ostacolano, quindi vado giù dritto e pesante. Il preambolo, o la cornice, investe la condizione del giornalismo di oggi. Non c’è spazio per un talento ribelle, indipendente e impertinente come quello di Massimo. Avrebbe meritato assai di più di quanto la carriera gli abbia consentito, non certo per limiti suoi. Come non tirare in ballo la qualità dei direttori di giornali di oggi? Una volta, al Corriere della Sera, al timone c’era un certo Piero Ottone: cinico, lucido e capace di osare, cominciò a pubblicare in prima pagina Pier Paolo Pasolini. Pasolini, dico, non Massimo Fini! Nessun direttore del Corriere della Sera, alcuni ottimi giornalisti, altri mediocri, ma anche Paolo Mieli e Ferruccio de Bortoli – eccellenti dirigenti, più che giornalisti – hanno mai avuto il coraggio di accogliere, per timore di qualche stramberia o provocazione, la firma di un Vittorio Feltri o di un Massimo Fini, appunto. Dispiace dirlo, ma è così. Feltri, poi, poteva essere un grandissimo direttore, in via Solferino. Luca di Montezemolo glielo propose, anzi assicurò; poi fece marcia indietro, ovviamente intimorito, lui e altri azionisti del quotidiano, dalla personalità fortissima e indomabile di Vittorio. Non c’è spazio, nei giornali di oggi, per coloro che siano liberi di mente. Perché? Perché fanno paura, e una volta questa paura non c’era. Altri grandi giornali di oggi, addirittura, sono diretti da poveri bidelli, scelti dagli editori, perché obbedienti e pronti a inginocchiarsi verso qualsiasi Preside, laddove per Preside metaforicamente intendo qualsiasi rappresentante di un potere, editore incluso ovviamente – per primo. I bidelli in cuor loro desiderano diventare insegnanti, ma non ce la faranno mai, perché a ogni Preside, editori in primis, basterà uno sguardo severo, uno sbatter di ciglia, per non dire un dito ammonitore, per tenerli a bada e rispedirli alla bassa cucina, cucina ordinaria e precotta, con disposizioni precise. E la dico tutta. Paolo Mieli e Ferruccio de Bortoli sono dirigenti di primo ordine, avrebbero potuto ambire ai vertici di qualsiasi istituzione o potentato, dal Vaticano alle banche, dal governo a qualsiasi impresa pubblica o privata. Li conosco e posso dire che avrebbero anche potuto fare un grandissimo giornalismo, se avessero voluto. Non hanno voluto perché, per restare al timone, era necessario saper mediare con le proprietà dei giornali di oggi, che a tutto pensano tranne che alla qualità del prodotto: non a caso, tutti e due hanno varcato due volte le porte girevoli del Corrierone, exploit mai riuscito nel secolo di storia precedente di via Solferino. Peccato. Un altro grandissimo giornalista, come scrittura il migliore, come direttore straordinario nelle invenzioni, è Giuliano Ferrara. Ha diretto “Panorama”, ha fondato “Il Foglio”. Il Sistema non gli ha consentito, come avrebbe potuto fare da Dio, di arrivare al vertice di un grandissimo giornale, di un telegiornale, della Rai… E Travaglio? Col talento che possiede, ha dovuto fondare “Il Fatto”, per riuscire a esprimersi liberamente, infischiandosi dei mille lacci e lacciuoli con cui il Sistema voleva ingabbiarlo. Infine, Giulio Anselmi: non gli hanno mai dato la direzione del corriere perché è il direttore, oggi, più indipendente rispetto a qualsiasi potere, che sia politico o finanziario o di altra qualsiasi caratura. Scendendo qualche gradino, ci sono tanti giornalisti che non hanno avuto ciò che meritavano perché incutevano timor per la loro personalità indipendente. Tra i “vecchi” mi vengono in mente i nomi di Mario Pirani, Alberto Statera, Giovanni Valentini, Lanfranco Vaccari, Massimo Donelli – ma ce ne sono tanti. Tra i giovani, faccio un solo nome, Malcom Pagani, ma includerei, e sono legioni, i giovani del Foglio e del Fatto, che meriterebbero una visibilità altissima, anche se probabilmente sono appagati dalle condizioni di libertà loro consentite dai due piccoli quotidiani. In questo gruppetto di personaggi liberi di mente, Massimo Fini ha un posto, in prima fila, di diritto. Non saprebbe fare il direttore, è vero, ma come opinionista si mangia e si beve tutti quelli che, convenzionalmente, vengono considerati pensatori di qualche valore. Ancora sul libro: il romanzo, il romanzo della vita di Massimo Fini non c’è, è slegato, discontinuo, frenato da superfluità di cui sorrido (come il racconto di quella volta in cui, avendo perso le chiavi di casa, dovette saltare da un terrazzo all’altro: a chi può interessare?) Ma il giornalista c’è, un eccellente giornalista e narratore: dalla sua antipatia verso le donne alla sua ammirazione e devozione per le femmine, dal costante malinconico pessimismo, alla depressione, all’alcol, ai tanti amori consumati e bruciati, al difficile rapporto con la madre russa e il padre, giornalista di valore, leggiamo il racconto inesorabile, crudo, di un cronista purosangue. Il tema, come ho detto ieri, è la ricerca di sé, il tentativo di capire in profondità la propria anima, il desiderio struggente di sfuggire al nonsenso, implacabile, della vita e al mistero di chi, se esiste, l’abbia inventata per noi, con mille trappole e altrettante perfidie.

ANCORA A PROPOSITO DI FINI, SCRIVE FIAMMETTA JORI

Una vita copertina

“Ho adorato il libro di Massimo e l’ho letto di un fiato”, mi scrive Fiammetta Jori, e ricordo sempre che si tratta del mio personale premio Nobel per la poesia “e concordo perfettamente con la tua analisi. Sono convinta che sempre coincidano Narciso e Amleto, vanità e orrore di sé. Conosco sulla mia pelle il tormento celato dietro un buon maquillage! La grandezza del teatro, quello alto ed eterno, è proprio la levità della commedia che vela il magma dolente del dramma di esistere… Basterebbe quello di Eduardo o di Tennessee Williams. Non c’è niente di più serio che essere capaci di frivolezza, ha detto Oscar Wilde. Ma Fini non è il mio idolo, come mi hai provocato tu: sono vanitosa anch’io ed ognuno infondo si rivolge al suo specchio, per conoscere la verità, che forse non è di questo mondo”.

ENEL/ LA CURIOSA STORIA DELLA SPONSORIZZAZIONE DI “AMICI”

logo Amici

Avvengono cose inspiegabili, nel mondo editoriale, e quindi per autoironia in buona parte voglio attribuire l’incapacità di capire alla ottusità della mia età senile. In questo caso, parlo della strana sponsorizzazione, che l’Enel ha deciso di fare per il programma “Amici” di Maria De Filippi. Visto che non capisco, ma mi adeguo, metto in fila alcuni punti, slegati tra di loro, per proporvi di capire una strategia che, dal canto mio, capito non ho. 1. Enel ha trattato e raggiunto un accordo con la società di produzione della signora De Filippi, scavalcando Publitalia. 2. Novità del programma, Roberto Saviano: a mio discutibilissimo parere, un idolo di cartapesta, sopravvalutatissimo. 3. Enel ha rinunciato a sponsorizzare Masterchef, X Factor, Sky cultura. 4. Il successo, al debutto del programma, è stato fortissimo, innegabilmente. 5. Resta da capire però a quale pubblico Enel, con questa operazione, abbia voluto rivolgersi: è sicuro che il pubblico di “Amici”, ragazzi adolescenti e famiglie di livello medio basso, siano il target congruo per la società elettrica? 6. Qualche difficoltà nel capire deve esserci stata anche all’interno di Enel, se è vero, come dicono, che la pratica è finita sul tavolo dell’amministratore delegato, Starace. Attendo, serenamente, altre informazioni e precisazioni: tanto per capire.

cesare@lamescolanza.com

14.04.15