OGGI VI DICO CHE…UNA ZIA

“E all’improvviso il ricordo mi è apparso. Quel gusto era quello del pezzetto di madeleine che zia Léonie la domenica mattina a Combray […] mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio quando andavo a darle il buongiorno in camera sua”
(Marcel Proust)

ATTUALIZZANDO… È UNA PAGINA DI DIARIO

diarioDomenica, su “La Verità“, ho pubblicato una nota col titolo “Riflessioni in morte di una donna esemplare”. Quella donna era una mia zia, Franca Florio, sorella di mia madre, tutte e due di Cosenza, che è anche la mia città nativa. Sapete che non considero “Alle 5 della sera” un blog, ma un diario personale in cui ho la possibilità di scrivere ciò che penso, per fortuna in assoluta libertà, sia di ciò che accade nel mondo, sia della mia vita privata – quando ritengo che possano interessare a chi legga. In questo caso è così. Questa mia zia Franca è il simbolo di un’umanità bella e positiva, che esiste ancora in Italia e mi dà le uniche speranze in cui sia possibile confidare, per il nostro futuro.

UNA CERTEZZA IN CUORE

Una certezza nel cuoreSì, ho una certezza in cuore: nel nostro Paese, ogni giorno con molte ragioni criticato e di pessima immagine, ci sono milioni, molti milioni, di uomini e donne per bene, che non meriterebbero di essere mal governati, esposti ogni giorno a vessazioni e ingiustizie, soprusi, arroganze. E questa riflessione, elementare, mi è tornata in mente sabato, in un giorno perché doloroso. Sono andato in Calabria per partecipare al funerale della “donna per bene“, di cui vi sto parlando: la mia adorata zia, Franca, a cui ero particolarmente legato perché mi fu vicina, più di mia madre, in un difficile, delicato e forse decisivo momento della mia giovinezza.

UNA FERITA MAI RIMARGINATA

Ferita nel cuoreAvevo diciassette anni ed ero entrato in conflitto con mio padre: lui odiava che scrivessi sui giornali (da quando di anni ne avevo solo quattordici) ed esigeva che, alla fine degli studi, prendessi, come si usava allora, il suo posto in banca. Ma io avevo altro in mente. Mio padre aveva un carattere forte, fino a quando avevo dieci anni mi frustava, per punire le mie disubbidienze: di questo non gli ho mai portato rancore, perché così – in Calabria – a sua volta era stato educato. Oltre all’alternativa banca/giornalismo dovevo subire varie imposizioni, anacronistiche in un una città europea come Genova, dove vivevamo. Mi ribellavo. E quando mi disse con categorica durezza “in questa casa si fa come dico io e non si discute”, di casa me ne andai. Allora maggiorenni si diventava a ventuno anni, non ci furono “Chi l’ha visto“, o televisioni o carabinieri pronti a cercarmi e recuperarmi. Per fortuna! Nei vicoli di Genova, quelli che un giorno sarebbero stati esaltati da Fabrizio De Andrè, vissi due mesi meravigliosi di selvaggia indipendenza, autonomia, libertà. Campavo vendendo bibbie porta a porta. E scoprivo la vita aspra e reale, quella dei marciapiedi. Vivevo in una orrenda locanda, con ladruncoli prostitute e altri infelici miserabili. Però mi portavo dentro una spina acuta, dolorosa: mio padre mi aveva cacciato, mia madre (poverina, succube di mio padre) non mi aveva tutelato. Una ferita – debbo ammettere – che per mia colpa mi ha accompagnato tutta la vita e purtroppo non si rimarginerà più.

A NATALE LA MIA FUGA FINÌ. DA GENOVA A COSENZA…

Genova-cosenzaDopo due mesi, verso Natale, mia madre finalmente si intenerì, telefonò a un suo fratello, a Cosenza, e lo pregò di ospitarmi a casa sua, fin quando la tempesta non si fosse esaurita. Ricordo il viaggio in treno da Genova a Cosenza, nel gelo della terza classe, come il più triste della mia vita. Sapevo cosa lasciavo, la mia famiglia e una città fantastica, e non sapevo cosa avrei trovato. E invece…invece in casa di mio zio trovai i suoi cinque figli, tutti maschi. Più che cugini, cinque fratelli: tutti più giovani di me. E poi, subito, l’affetto grande, immediato e istintivo, della zia Franca.
Era una donna di particolare valore, Franca. Come sposa, fu avvinta al marito da un amore romanzesco, da quando era una ragazzina, fino alla fine, nonostante le difficoltà della differenza di età e di altri impicci familiari. Adorava il marito Gino, un uomo buono, ironico, e da lui era riamatissima. Una storia ottocentesca, degna del racconto di Tolstoj o di Bacchelli. E, dopo il matrimonio, di rivelò splendida, nella semplicità, anche come madre, zia, nonna. Misurata, discreta, positiva: mai una parola di più, se mai una di meno. Colta, bonariamente critica, di mente libera, anche senza una particolare istruzione, ma sapiente perché leggeva con curiosità, divorava libri di qualsiasi argomento. Impossibile trovare ombre e nuvole, nella sua lunga vita.

LO STRAPPO DELLA MORTE

lo strappo della morteQuesti pensieri ci torturano di fronte alla morte, avvertita con dolore, per lo strappo, che è sempre violento, e la perdita. In vecchiaia non riesco più a frenare le lacrime e a dissimulare la commozione. Ho pianto, senza pudore, di fronte al corpo privo di vita della zia, mentre mi tornavano in mente tanti episodi, un pezzo della mia vita. Quando arrivai a Cosenza, un giorno la settimana mi accoglieva a casa sua, facevo un bagno, poi lei cenava con me. Mi dava l’affetto e la tenerezza che mia madre, a quel tempo, non aveva potuto o voluto darmi: tentava di riempire un vuoto, intuiva la mia solitudine, senza enfasi.

QUELLA INDIMENTICABILE TORTA ALLA CREMA

torta alla cremaUn rito speciale era la preparazione della sua leggendaria torta con la crema pasticciera: per tutta la vita, ogni volta che andavo a Cosenza, la preparava per me, e per i miei figli. Quante volte le ho chiesto la ricetta. Impraticabile, indecifrabile. Come tutte le favolose donne e zie e nonne di una volta, ermetica sulle dosi… Zucchero? Quanto basta. Farina? Quanto basta. Uova? Quante ne bastano! Qualche volta mi sono chiesto se non ci fosse anche un pizzico di malizia, di difesa della “sua” creazione. Ma non credo, era troppo – in tutto – generosa. È stata una persona fondamentale per la mia formazione in quegli anni difficili. E le sono sempre stato grato. Mi hanno detto che, quando era in coma, le hanno detto che sarei arrivato; e lei ha sorriso. Come posso fermare le lacrime?

LA CONSIDERO UN SIMBOLO

SIMBOLOInvecchiando, ho imparato a non considerarmi l’ombelico del mondo, protagonista esclusivo delle gioie e tristezze umane, universali. E ho capito che tutto cambia: mio padre con i miei figli, i suoi nipoti, era tenerissimo. Una volta lo provocai: “Dov’è finito il babbo terribile di una volta?”. E lui mormorò: “Se ho sbagliato una volta, non è detto che debba sbagliare ancora…”
Il mio dolore è stato atroce. Ma atroce è il dolore di tutti coloro, con sentimenti veri in cuore che perdono una persona amata. Esemplare è stata l’esistenza della zia Franca. Ma quanti onesti cittadini le sono simili? Milioni, credo. Nel giorno del funerale, la chiesa era piena di persone che le avevano voluto bene. Persone semplici, per bene: occhi addolorati, poche parole essenziali, partecipi e consapevoli del lutto. Pensavo: questa è la gente vera, la maggioranza degli italiani. Ma la Casta, la stramaledetta Casta, non si cura dei problemi della maggioranza degli italiani. Giorno verrà?… Verrà un giorno in cui le persone per bene riusciranno a prevalere sulla Casta, a far rispettare i loro diritti, l’onestà, i sacrifici? Si, questo giorno verrà ed è questo il saluto con cui dico addio alla mia zia adorata, che mi fu vicina come e più di una madre.

cesare@lamescolanza.com

13.02.2017